
Dalle montagne alle stelle — letteralmente. Fabio Ingallinera è lo chef che al ristorante Il Nazionale ha portato una visione tutta sua: cucina d’autore, sostenibile, radicata nel territorio. Siamo a Vernante, piccolo gioiello incastonato nelle Alpi Marittime, dove la natura detta il menù e ogni piatto racconta una storia fatta di stagioni, materia prima e tanto cuore. Qui la tecnica non è protagonista, ma alleata della terra. E il risultato? Un’esperienza gastronomica autentica, che guarda al futuro senza mai dimenticare le radici.
Chef Ingallinera, partiamo dalle origini del ristorante Il Nazionale. Che storia ha questa struttura?
La struttura è sempre appartenuta alla stessa famiglia, anche se le generazioni sono cambiate. Oggi ci sono Christian ed Andrea, che sono fratelli, e il loro cugino Maurizio, che portano avanti il progetto. Io sono arrivato qui nove anni fa, quando cercavano qualcuno che potesse dare un’impronta di territorio, elevando un po’ la tecnica. Siamo rimasti fedeli a quel principio: la tecnica deve fare un passo indietro rispetto alla materia prima.
Siete immersi nel Parco naturale delle Alpi Marittime. Quanto incide questo sull’idea di cucina?
Tantissimo. In questa vallata troviamo aglio orsino, tarassaco, fiori selvatici… in primavera li raccogliamo e li usiamo. In autunno abbiamo bacche rosse, rosa canina, biancospino. Il territorio è la nostra dispensa. Qui c’era un bar, sopra una piccola osteria. Poi il padre di Christian ha scavato e aperto il bar. Dove oggi c’è il bistrot, un tempo si facevano i matrimoni. La struttura è cresciuta nel tempo.
Com’è organizzata oggi la vostra realtà?
Al gastronomico — Il Nazionale ndr — siamo in sei. Poi ci sono tre-quattro persone al bistrot e altrettante in bottega. La bottega è affidata alla responsabilità di Roberta Falco, che coordina il laboratorio. In totale, una trentina di persone. La bottega è nata quasi per necessità: facevamo i lievitati solo per il ristorante, poi la produzione è diventata autonoma.
Qual è stata la sfida più grande per te, come cuoco, in questa realtà?
Adattarsi alla restrizione delle materie prime. All’inizio avevamo solo trota, storione, pecora… pochissime cose. Ma proprio questo limite è diventato la nostra forza. La tecnica serve a valorizzare, mai a sovrastare. Per esempio, lavoriamo solo animali interi, a parte il vitello. Acquistiamo pecore da 80 kg, caprioli, cervi… e dobbiamo usare tutto: stinchi, crudi, lunghe cotture. È una cucina che nasce dalla materia prima, non dall’idea.
È anche un esempio di economia circolare.
Esattamente. Il bistrot ci aiuta tantissimo. Quando compriamo un montone da 90 kg, parte va al gastronomico, parte al bistrot. Così valorizziamo ingredienti che, altrove, sarebbero fuori mercato. Il cliente del bistrot mangia qualcosa di unico, e noi possiamo permetterci tagli eccellenti.
C’è un ingrediente a cui è affezionato, ma che per motivi territoriali fatica a usare?
Il pomodoro. Ne vado matto, ma qui non è proprio il suo habitat. Eppure ci abbiamo provato. Abbiamo due orti, uno dei quali non ce ne occupiamo direttamente noi. La nostra idea di sostenibilità parte dal principio che ognuno debba fare bene il proprio lavoro: noi trasformiamo, altri coltivano. Collaboriamo con persone del territorio, che vivono la montagna e la rendono viva. È anche questo un modo per far sopravvivere un ecosistema.
In uno degli orti coltiviamo pomodorini in quota, sfruttando il riscaldamento climatico. I ciliegini ci hanno dato grandi soddisfazioni. Con quelli prepariamo una “panzanella occitana”, con fermentato di pomodoro e croccante di segale.
La vostra cucina lavora molto con la selvaggina. Come vede il futuro della caccia e il suo impatto sulla ristorazione?
È un tema delicato. Per noi, la caccia è sostenibilità. È più sostenibile prendere un animale dietro casa che una verdura dall’Olanda. Nessuno verrebbe qui a mangiare gamberi e insalata. La nostra identità è legata alla montagna e alla sua biodiversità.
Com’è cambiata la vita del paese grazie al ristorante?
Vernante è un paese di mille abitanti. Oggi, su 30 dipendenti del Nazionale, 25 hanno una media di 30 anni. Il ristorante ha attirato giovani, famiglie, vita. È stato un motore sociale oltre che gastronomico.
Come funziona la creazione dei vostri menù?
Non facciamo mai cambi drastici. I piatti ruotano, si adattano alle stagioni. Seguiamo il ritmo della natura: bacche, aglio orsino, funghi… Usiamo in primis i funghi selvatici, ma anche quelli coltivati da un’azienda di Carmagnola.
Abbiamo un menù dinamico, con rivisitazioni della tradizione, uno monotematico legato all’habitat, e uno più classico. Usiamo solo funghi coltivati in Piemonte, e carni provenienti da animali maturi, allevati o cacciati con consapevolezza.
Guardando indietro al suo percorso, rifarebbe tutto allo stesso modo?
Forse cercherei di anticipare alcune scelte, ma rifarei tutto. Ogni tappa, anche quelle che all’inizio sembravano marginali, mi ha lasciato qualcosa. Ricordo ancora con chiarezza il 2004: facevo la quarta superiore e lavorai con uno chef che aveva collaborato a lungo con Sergio Mei nei suoi anni d’oro. Era una cucina semplice, ma già molto attenta: pulita, rispettosa, precisa. In quel momento non avevo ancora gli strumenti per comprenderlo fino in fondo, ma sentivo che quella cucina parlava il mio linguaggio, e che era diversa da quella che avevo conosciuto durante le stagioni.
Poi l’esperienza con Ciccio Sultano.
È stato il vero punto di rottura: è stato l’incontro che ha cambiato completamente la mia idea di cucina. Con lui ho visto per la prima volta una visione, un pensiero forte e coerente dietro ogni gesto, ogni piatto. È lì che ho capito che volevo fare questo mestiere sul serio.
Poi è arrivato il passaggio in Piemonte, dove ho avuto modo di lavorare con l’Antica Corona Reale. Quelle esperienze hanno consolidato tutto: la tecnica, la profondità del pensiero, la capacità di stare dentro una cucina ad alti livelli con rigore e lucidità. Sono stati anni decisivi, che mi hanno strutturato e fatto capire quale direzione volevo prendere.
Il passaggio ad ALMA, infine, è stato il primo vero salto: mi ha introdotto in un mondo che non conoscevo, mi ha dato un metodo e mi ha permesso di scegliere il mio percorso con maggiore consapevolezza. E oggi, dopo otto anni qui, posso dire che sono cresciuto insieme al progetto del Nazionale.
Oggi Il Nazionale ha una Stella Michelin. Qual è il prossimo obiettivo?
La stella verde. Non per un premio in sé, ma perché rappresenta perfettamente quello che siamo. Sarebbe il coronamento di un’identità costruita nel tempo, senza compromessi. Non cambierebbe nulla sul nostro approccio: sarebbe solo il riconoscimento di ciò che facciamo da sempre.